Rispetto agli altri esseri viventi, l’Uomo presenta una caratteristica del tutto specifica: la coscienza autoriflessiva. Questo significato che l’Uomo è l’unico essere vivente che sentire necessita di generare continue richieste al proprio, personale, esperire (Guidano, 1992). Ed è proprio questo aspetto che gli permette di avere un filo che lega insieme i vari ‘pezzi’ che costituiscono il senso di sé . Tale ‘filo’ riflette il senso che gli altri significativi gli hanno attribuito nel corso della sua esistenza e, per questo, genera vissuti e significati diversi a seconda della propria storia di sviluppo.
In questo senso ogni persona è un sistema che modula la propria organizzazione ricostruendo il proprio equilibrio in modo tale da far fronte a due esigenze: da un lato, la coerenza interna (cioè il senso di sé, in modo tale che resti il più possibile invariato) e, dall’altro, le interazioni con l’ambiente esterno (i familiari, i colleghi, gli eventi di vita), interazioni che spesso devono un pochino cambiare. Gli adattamenti all’ambiente sono i cambiamenti della persona effettuati grazie all’elasticità del sistema. Sistemi troppo rigidi rischiano di non adattarsi all’ambiente; ne conseguono disagio, sintomi, scompensi. Sistemi troppo elastici rischiano di disperdersi; anche in questo caso, il rischio è di disagio, sintomi, scompensi. Una buona elasticità è un buon equilibrio tra ciò che sentiamo (emozioni), pensiamo (cognizioni), facciamo (comportamenti). Una buona elasticità permette di avere fiducia in se stessi, di avere una buona stabilità emotiva (che non è controllo, bensì accoglienza e modulazione di ciò che sentiamo), di chiedere aiuto agli altri in caso di bisogno.
E’ in questa cornice che si colloca il costrutto di Intelligenza Emotiva , elaborato negli anni novanta da Salovey e Mayer e da Goleman. Si tratta di un’abilità emotiva che si esplica in varie accezioni, tra cui la conoscenza delle proprie emozioni, la regolazione delle proprie emozioni (modulazione), la capacità di sapersi motivare , il riconoscimento delle emozioni altrui, avere relazioni sociali appaganti, fra individuo e nel gruppo. Come già sosteneva Aristotele, infatti, sarebbe importante che le nostre emozioni lavorassero con noi e non contro di noi, per vivere. Ma per far questo occorre imparare a riconoscerle e a cogliere il ‘messaggio’ che ognuna di esse porta con sé nella direzione del nostro benessere. E’ un costrutto che si pone su un continuum. Questo significato che ogni persona può avere un livello diverso di intelligenza emotiva. All’estremo opposto dell’Intelligenza Emotiva si può parlare di Alessitimia, costrutto elaborato da Nemiah e Sifneos e da Taylor. Le caratteristiche di questo tratto sono una gran difficoltà nell’identificare i sentimenti e le emozioni, sia propri che altrui; la difficoltà nel distinguere sentimenti e emozioni dalle sensazioni corporee che si accompagnano all’attivazione emotiva (es. rabbia letta ‘mal di pancia’); la difficoltà nel descrivere agli altri le proprie emozioni e quindi di ricorrere ad essi come fonti di aiuto e di conforto; la scarsa capacità di provare emozioni piacevoli (il focus è più sulle emozioni spiacevoli); la presenza di processi immaginativi limitati che limitano la capacità di modulare le emozioni attraverso la fantasia, i sogni, gli interessi, il gioco (che appaiono così molto poveri); uno stile cognitivo pragmatico, legato allo stimolo e orientato verso l’esterno più che alle sensazioni ed emozioni interiori.
Dal punto di vista clinico, durante un percorso psicologico si impara, gradualmente, a riconoscere le emozioni e a non esserne spaventati. Si può imparare, ad esempio, a riconoscere i primi segnali di rabbia e considerarla come un ‘cenno dall’interno’ che ci indica di mettere distanza dalla persona o dalla situazione che la evoca o, al contrario, di attivarci per conquistare qualcosa che per noi è importante. Si può imparare a sentire la paura e a familiarizzare con essa, in modo tale da trasformarla in prudenza ma senza permetterle di bloccarci. Si può imparare a vivere la gioia, senza che questa emozione ci renda dipendenti da chi o da ciò che la suscita in noi. E tutto grazie a un graduale processo di ascolto, autosservazione e accettazione senza giudizio. In questo senso, lavoriamo anche sulla nostra Intelligenza Emotiva, migliorandola affinché si affini quello strumento interiore che con saggezza sa in quale direzione deve guardare il nostro equilibrio.
Avere un buon livello di Intelligenza Emotiva non significa proteggersi da emozioni spiacevoli come la rabbia o il dolore. Assolutamente. La vita ci mette di fronte a queste emozioni. Significa invece saperle riconoscere e modulare, in una sorta quasi di caldo contenimento, per ritrovare uno spazio di quiete che non derivi dal loro soffocamento, bensì dalla loro graduale trasformazione qualcosa in di ‘buono’ per noi.
“Se riesci a tradurre in parole ciò che senti, ti appartiene” (Henry Roth)